In viaggio con Dante (1)

 



La Divina Commedia è croce e delizia di ogni studente. Perché studiare oggi la Divina Commedia? E’ da leggersi per tre motivi: è storia del Medioevo, storia della lingua volgare ed esempio di sublime poesia. In ambito mondiale, Dante occupa un posto di prestigio, rappresenta non solo il padre della lingua italiana ma è tra i grandi della letteratura mondiale, accanto a Shakespeare, con il quale si contende un posto d’onore. Harold Bloom, massimo esperto mondiale di letteratura, definisce Dante “il più aggressivo e polemico tra i grandi scrittori occidentali, capace, da questo punto di vista, di eclissare persino Milton”. Ed è così poderoso sul piano retorico, psicologico e spirituale da minare la fiducia di tutti gli altri. L’unico poeta la cui originalità, inventiva e straordinaria fecondità facciano davvero concorrenza a Shakespeare. Bloom definisce il poema una profezia da aggiungere al Vecchio e  al Nuovo Testamento.

La Commedia nasce da un proposito oratorio, di persuasione e non poetico, ma diventa qualcosa oltre questo semplice intendimento. La poesia investe ogni cosa e resta poco di quell’iniziale progetto riuscendo a trasfigurare il contenuto, imprimendogli un valore più personale e affettivo. Nasce un poema allegorico secondo la tradizione medievale, rivolgendosi a un pubblico quanto più vasto possibile con un metro quale: la terzina del serventese, su sistema di tre strofe di tre endecasillabi ciascuna a rima incatenata. Commedia poiché alla tristezza iniziale si giunge poi a un lieto fine. Ma Commedia anche per descrivere un mondo vario, dal carattere composito, con punti di vista contrastanti, che mescola livelli stilistici diversi. L’aggettivo “Divina” fu apposto da Boccaccio nella biografia dantesca e fu solo dal cinquecento che si aggiunse a Commedia. Il proposito dell’opera nasce già alla fine della Vita Nova, tra le prime opere di Dante, dove l’autore si propone di parlare di Beatrice quando sarà capace di farlo degnamente. Un’opera in attesa di completarsi con qualcosa di più ambizioso. Qui deve affrontare un viaggio per niente facile e, seppure nato dalla fantasia di un uomo, la costruzione dell’Inferno, Purgatorio e Paradiso resta per il mondo cristiano, la rappresentazione per antonomasia dell’oltretomba. Per questo si ricollega alla tradizione medievale dei viaggi allegorici e morali oltre a quelli dell’aldilà.

E’ costituito da tre Cantiche: Inferno, Paradiso e Purgatorio, dove l’Inferno è quella più corposa, varia, umana e drammatica. La struttura dell’opera si basa sul numero tre, numero perfetto, operazione simbolica a cominciare dalla Trinità. Ogni canto è costituito da un insieme di terzine per un numero di versi massimo di centosessanta. Ogni cantica consta di trentatré canti ciascuna, l’Inferno ne ha uno in più per il Prologo, in tutto cento Canti.

All’inizio del viaggio immaginario si fa esplicito riferimento a due viaggi esemplari: quello intrapreso da Enea e da San Paolo, uno portatore della civiltà pagana, l’altro della religione cristiana.

Dante attinge tra le altre opere al Somnium Scipionis di Cicerone, le Metamorfosi di Ovidio e dalla letteratura religiosa al De contemptum mundi di Innocenzo II, le Vitae patrum, la Legenda aurea. Poi dai testi in volgare i poemetti di Giacomino da Verona, Bonvesin da la Riva, il Libro delle tre scritture, Bono Giamboni con Il libro dei vizi e delle virtù. Per quanto concerne la struttura della Commedia, la costruzione etica e fantastica è basata sull’Etica Nicomachea e sulla Retorica di Aristotele, San Tommaso, Fulgenzio, il De Officiis di Cicerone, Boezio. Il numero tre ha un simbolo di unità e trinità di Dio: l’allegoria del poema è il viaggio dal peccato alla salvezza con più guide: Virgilio, Beatrice, San Bernardo. L’allegoria è posta in modo così tenue da non intralciare mai lo svolgimento delle azioni. La struttura esteriore al racconto è data da Beatrice che, scomparsa dal mondo, porta il poeta a smarrirsi in una selva oscura. La stessa Beatrice invia a Dante una guida a soccorrerlo, Virgilio, che lo accompagnerà attraverso l’Inferno e il Purgatorio per poi lasciarlo a lei nell’Empireo. Il suo viaggio è simbolo del cammino dell’umanità. L’Inferno è costituito da una voragine conica di nove cerchi che, attraverso la porta sotto Gerusalemme sprofonda fino al centro della Terra, luogo deputato a Lucifero. Agli antipodi di Gerusalemme, s’innalza la montagna del Purgatorio, costituito da nove cerchi ruotanti attorno alla terra, oltre la quale si trova l’Empireo. I peccatori nell’Inferno sono distribuiti in base alle colpe dello schema aristotelico: alle porte dell’Inferno stanno gli ignavi, il primo è il Limbo dove ci sono coloro che morirono senza battesimo e gli spiriti magni, cioè vissuti fuori dalla rivelazione cristiana; seguono, nel secondo, i lussuriosi, nel terzo i golosi, nel quarto gli avari e prodighi, nel quinto gli iracondi e accidiosi. Nel sesto cerchio gli eretici ed epicurei, al settimo i violenti, l’ottavo i fraudolenti, al nono i traditori. Nel Purgatorio i peccatori sono disposti in sette balzi seguendo lo schema dei sette peccati più l’Antipurgatorio, sede di chi tardò a pentirsi e attende di essere ammesso a espiare la colpa. Nel Paradiso si ritrovano i Beati distribuiti nei singoli cieli. I peccatori sono assegnati ai luoghi in base ai peccati. Le pene seguono la legge del contrappasso, da intendersi come una corrispondenza o un’opposizione tra la pena e peccato.

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"Al largo di Santa Cruz" a Sarno






                                                                




Ieri sera ho partecipato all'evento di presentazione del mio romanzo "Al largo di Santa Cruz" presso l'Istituto Comprensivo "Giovanni Amendola" di Sarno. È stata una serata emozionante, preparata con cura dai docenti, tra cui la prof. Sonia Fiammetta D'Alessio e la prof. Rosa Leo, dalle mamme e nonne che hanno letto alcuni brani, dal maestro Alfonso Calandra con i suoi intermezzi musicali. La Preside, prof.ssa Antonella Esposito, amante della letteratura e in modo particolare di Leopardi, ha aperto la serata con i saluti e le sue riflessioni sul valore della lettura e del sapere. Si sono avvicendate poi le mamme  nella lettura dei testi intercalata da intermezzi musicali del maestro Calandra che si è affidato a un repertorio di canzoni napoletane sul mare. E nessuna canzone può arrivare al cuore come quella napoletana. Lo ha ribadito con emozione anche la professoressa seduta accanto a me, trasportata dalle note del maestro. 
La mia relatrice, Sonia Fiammetta D'Alessio, con un'analisi approfondita del romanzo, ha tirato fuori per la conversazione temi sottesi, ben oltre la trama e gli eventi della storia. Pertinenti e puntuali le osservazioni, le rilevazioni e la psicologia dei personaggi. Sono emerse le funzioni di Vladimir Propp, la metafora del viaggio, il mare come l'animo umano, lo scorrere della vita alla stessa stregua delle onde del mare, altalenando il bene e il male come un ritornello e facce di uno stesso elemento, l'amore che coniuga la vita nelle sue varie manifestazioni, le difficoltà nel procedere, il coraggio di affrontare le avversità...
È stata una profonda disamina  e un confronto continuo. Di solito ad ogni presentazione si scopre qualcosa della storia fornendo al libro un volto sempre nuovo mentre si rivela ad ogni singolo lettore.
Importante poi la presenza di alcuni alunni in sala, un pubblico giovane che ha mostrato buone capacità di concentrazione e interesse.
Di ogni presentazione resta ciò che è stato detto, le parole espresse, le sfumature, le frasi emerse dal contesto, anche ciò che non si immaginava potesse voler dire. Ogni storia è un baule di esperienza che arricchisce chi scrive e chi legge, confondendo anche i ruoli, dove il lettore si appropria di ciò che ha letto e lo scrittore riconosce ciò che ha scritto.
Cultura, come vuole il verbo latino: "colo, colis, colui, cultum, colere", significa coltivare se stessi, proprio riprendendo il gesto e le funzioni del contadino che si prende cura delle piante nel terreno. Cultura è seminare bene nel nostro animo per renderlo forte e sano, sin dalla tenera età. E cultura è anche quando in un contesto come quello di ieri sera ci si confronta tutti col pretesto di stare lì a conoscere un testo, mentre  i veri attori eravamo noi con le nostre emozioni e le nostre scoperte interiori mentre si dissertava su argomenti  presi dal romanzo.
Una serata ricca di spunti, di persone interessate, di ascolto, di intrecci e voglia di scoprire. Ringrazio tutti i partecipanti alla serata.

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Tra le nuvole

 


L'aereo mi mette ansia. L'ultima volta, anche se con apprensione, ho cercato di scalzare la paura distraendomi con la lettura e guardando fuori dall'oblò. Ero circondata da nuvole: soffici, ampie, l’una sull’altra.  Tutto sommato era un autobus che sfilava nell’aria o anche una nave in mezzo al mare. Della terra non si aveva visione, se non di tanto in tanto, quando usciva un pezzettino di verde in una nuvola più leggera, per poi perdersi tra gli strati sovrapposti. Il pensiero di sorvolare sulle città, le abitazioni, le persone, faceva una certa impressione. Il display di fronte riportava la rotta seguita passando per Roma, Firenze, Milano... Immaginavo in quel momento la vita a terra: ora di punta, uscita dal lavoro, il traffico cittadino, le corse per la spesa, il rientro, la cena, gli incontri, gli amici, le passeggiate, mentre noi seduti, con lo sguardo ai nostri telefonini, libri, aspettavamo di arrivare a destinazione. Le ali del veicolo, spiegate alla mia destra così a sinistra, mi ricordavano che l’aereo simulava il volo dell’uccello che migra da una parte all’altra del mondo cercando gli habitat più consoni. Anche noi migravamo da una parte all’altra dell’Europa. In un paio d'ore si cambia fuso orario, giungendo in un luogo lontano dalle nostre abitudini e stili di vita.

E volando ho rivisto il mito di Scilla, che tradì il padre Niso strappandogli il capello purpureo per amore di Minosse e causandogli la morte. Fu poi trasformato in avvoltoio mentre sua figlia, rifiutata da Minosse, finì in mare diventando un airone. 

Dall’alto la vita è più leggera, senza affanni, libera. Volare implica solitudine, strappati al resto, soli con le nostre rotte mentali. La vita deve sempre avere una meta, un obiettivo, un punto cui tendere. Vivere per vivere trasportati dagli eventi, secondo le correnti, ci predispone a cadute e avversità. Dobbiamo procedere come il volo, verso un punto preciso con idee chiare, concentrandoci sulla meta. 

Le nuvole intorno si aggregavano e si diradavano al  nostro passaggio, creando un labirinto tra batuffoli e grossi animali che cambiavano forma col procedere degli altistrati e i cumuli. Avvicinandoci alla destinazione e cominciando a scendere di quota, le nuvole  avevano qualcosa dello zucchero filato, lasciando intravedere, tra l'una e l’altra, qualche elemento del paesaggio sottostante. Continuando nella discesa prendeva forma il suolo, la pista di atterraggio, col ritorno alla vita, lasciando tra le nuvole il pensiero libero ispirato dall'altitudine e da quell'ammasso avvolgente di spuma bianca. Le terre assumevano  varie sfumature, emergevano i campi a forma di rettangolo o di trapezio, le case tutte in fila, raggruppate nei  parchi pieni di verde, poco distante il fiume, il ponte, i palazzi più alti. Atterrando il tempo ha ripreso a scorrere, con le ansie della partenza: ciò che bisognava fare usciti dall’aeroporto, il clima cambiato, la stanchezza che saliva al viso, il bisogno di alzarsi da quella posizione. Guardare dall’alto è facile, ci si erge a maestri, ma è scendere tra gli altri più difficile, quando ci si pone al lato degli uomini e si fanno le stesse cose. Dall’alto può avere i suoi vantaggi, tutto è più chiaro da comprendere, ma è immettersi nella realtà che crea fatica. La vita è porsi accanto.

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Lo steccato

 




Sul mio pianerottolo, a destra, gli operai hanno posto uno steccato con tre assi e quattro chiodi per arginare un muro che va rifatto.

Tanto è bastato per riportarmi ai miei disegni di steccati di quando ero scolara. Chi di noi non si è trovato a disegnare uno steccato alla fine della casa sul foglio, come un’appendice su cui poggiarci fiori, rami, persone affacciate. Assi affossate nel terreno per delimitare un solco, uno spazio, un confine. Ogni mia casetta ne aveva uno, disegnato con cura. A volte erano approssimativi, altre solo accennati, ma sempre presenti. Un dovere aggiungerlo là dove non sai cos’altro mettere. Cambia in base al legno, alla forma, all'uso che se ne fa. Mi piacciono quelli un po’ screpolati, abbattuti, divelti, hanno sembianze umane nelle nostre varie condizioni. Dicono ciò che hanno subito, quando sono stati costruiti, che cosa hanno attraversato. Un paesaggio, dal vivo o sul foglio, acquista valore se contiene uno steccato. Si percepisce la presenza dell'uomo in quel miscuglio di naturale e antropico.

Un mio dipinto ne mostra uno tra massi laterali a dividere due parti di un prato. Mi è costato molto limare quei sassi intorno, uno sull'altro e dare il colore giusto al legno. In un dipinto che ho prodotto in Cornovaglia, invece, ho perso più tempo a dipingere lo steccato che a rifinire i fiori. La difficoltà era dosare la giusta luce per proiettare la reale ora del giorno. Ma il fascino dello steccato risale alla mia infanzia: ce n’erano tanti nei campi e lungo i sentieri che portavano ai monti. Una volta mio nonno ne costruì uno piccolo sul sentiero del bosco: serviva ad affacciarmi e ammirare il mare dall’alto. A guardare giù avevo le vertigini al pensiero che, se non avesse retto, mi sarei trovata giù. 

 Altro ricordo indelebile le mie passeggiate, da bambina, per i sentieri intorno alla casa dei nonni. Mi intrattenevo spesso a giocare accanto agli steccati, avevo maggiori possibilità di destreggiarmi. Altre volte rovistavo il legno scoprendo corridoi di formiche, tane, file d’insetti, gocce di resina, buche in cui appoggiavo i polpastrelli per capirne la profondità. Altre volte, con un punteruolo incidevo nel legno rappresentando quello che vedevo nei campi. Raramente l'ho visto in veste di divieto, come sul mio pianerottolo. Eppure molti hanno questa funzione. In questo caso indica un pericolo da evitare, mentre altre volte un confine da non varcare. Il mio steccato è un modo affettuoso di accogliere e preservare. Ogni altra sua funzione non la sento mia.

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I Promessi Sposi

 


I cari Promessi Sposi di Alessandro Manzoni non vanno mai in pensione.  Facciamo uso di frasi e nomi dell’opera nel bel mezzo di un discorso o chiacchierata come se stessimo parlando di parenti. Ritornano il famoso “vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di altri di ferro” riferito a Don Abbondio, il “non fare la monaca di Monza”, parlando di Gertrude, “sembri il Nibbio o il Griso”, o l’abusato “Innominato” riferendoci a qualcuno che non vogliamo menzionare. Parliamo dei personaggi come fossero antenati, zii da commemorare, così di episodi precisi riportandoli al nostro tempo. Un indiscutibile grande romanzo storico che caratterizza il nostro panorama letterario.

Ebbe quattro edizioni, dal 1827 al 1840. Comincia con un matrimonio che “non s’ha da fare né domani, né mai!” per bocca dei bravi che si presentano a Don Abbondio che "tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628", per intimargli di non celebrare le nozze, il giorno dopo, tra Renzo e Lucia. Inconfondibile l'incipit, tra i più famosi e riconoscibili della storia della letteratura: “Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte…”

La prima redazione risale al 1823 col titolo Fermo e Lucia, nel 1827 esce la seconda stesura dal titolo I Promessi Sposi, detta la ventisettana, fino all’edizione definitiva nel 1840.

Il romanzo è ambientato nella campagna lombarda tra il 1628 e il 1630, durante la dominazione spagnola in Italia. L’autore trova l’espediente di un manoscritto risalente al XVII secolo da cui trae spunto per la storia.  La società è ancora quella della nobiltà feudale con un clero potente e invadente e una parte di società che cerca di gabbare il popolo attraverso la cultura come mezzo di sottomissione. Trentotto capitoli ricchi di avventure, azioni, storie nella storia. I personaggi sono dipinti tracciandone vizi e virtù di ciascuno con toni chiaroscuri per lasciare emergere quanto più possibile la verità. Si attraversano i grandi eventi del periodo, con un realismo alla ricerca della verità e della storicità. Il narratore è onnisciente e procede tra giudizi morali e ironia spesso aggressiva, mettendo un certo distacco tra l'autore e la materia trattata. Una sorta di equilibrio tra i fatti reali e la narrazione soggettiva dell’autore. Si riconoscono, al suo interno, rapporti di forza, analisi di una realtà fatta di azioni e reazioni, contrasti con punti di vista psicologico, materiale e morale. Tutto trova una giustificazione nei piani della Provvidenza e tutto si ricostruisce attraverso la conoscenza del bene e del male. I personaggi, poli di forza del romanzo, sono immersi in uno scenario storico fatto di guerra, peste e carestie. Realismo e tensione emergono per tutto il romanzo.

Sin dalle prime pagine abbiamo una caratterizzazione ben precisa del personaggio di Don Abbondio, un pusillanime, ignavo, incapace di prendere alcuna iniziativa, frenato dalla paura e privo di ogni contributo da parte sua. Accanto al curato si erge Perpetua, la donna che cura la canonica, abile a trovare soluzioni, impicciona, sempre a confabulare. La protagonista è Lucia, la ragazza di paese che ama Renzo in modo devoto e sincero. Il suo promesso è un ragazzo del popolo, semplice, buono, gran lavoratore. E poi ancora Agnese, madre di Lucia, donna concreta. Il personaggio prepotente è incarnato da Don Rodrigo, signorotto della nobiltà feudale, e poi la figura lugubre e tragica dell’Innominato, atto alla violenza, che supporta le malefatte di Don Rodrigo, per il quale farà rapire Lucia. Tra le altre figure del mondo ecclesiastico, oltre a Don Abbondio, abbiamo Padre Cristoforo, la monaca di Monza, il Cardinale Federigo Borromeo.

Della gerarchia ecclesiastica Federigo Borromeo rappresenta il volto buono, che tende al bene con autentica nobiltà d’animo. Accanto a questi personaggi principali ne ruotano altri importanti e meno, tutti inconfondibili, diventati simboli ora del bene ora del male: i bravi, Azzeccagarbugli, il Conte zio, il Griso, il Nibbio, l’oste, Donna Prassede, Don ferrante, il gran cancelliere Ferrer…

La genesi del romanzo fu una lunga gestazione nata negli ambienti culturali tra Milano e Parigi. L’autore fu a contatto con l’illuminismo francese. Numerosi i romanzi confluiti poi nei Promessi Sposi, tra cui La nouvelle Eloise di Rousseau, La Religieuse di Diderot, l’Adolphe di Constant. Al Manzoni interessò il romanzo psicologico per gli aspetti genuini e demoniaci come Clarissa di S. Richardson. Un motivo ritornante nella letteratura settecentesca era quello satanico valorizzando il ribellismo di Lucifero e l’eroismo malefico. Di questa lunga tradizione fanno parte: I masnadieri di Schiller, dove il personaggio Karl Moor incarna l’enigma del bene e del male in una rivolta contro l’ingiustizia;  Messiade di Klopstock, una severa condanna illuministica di società corrotta; Il corsaro di Lord Byron, dove troviamo l’eroe demoniaco tra le ribalderie presenti e il rimorso del passato; e ancora Le relazioni pericolose di Choderlos di Laclos, La filosofia del Boudoir del Marchese De Sade…

Accanto al motivo della seduzione c’è poi anche quello della persecuzione con: Il castello d’Otranto di Horance Walpole, Il monaco di G.M. Lewis,  Melmoth l’errante di C.R.Maturin.

Il Manzoni s’immerse in queste letture, desideroso di nuovi spunti. Tra gli altri predilesse il romanzo di Tommaso Grossi, Marco Visconti, dove il protagonista ama Bice e la perseguita ma Bice, a sua volta, è innamorata di Ottorino. Si riscontra qui un’analogia tra la cavalcata notturna del protagonista, folle di gelosia per Bice, e Don Rodrigo di Fermo e Lucia trascinato a morte da un cavallo imbizzarrito.

Dopo la conversione, il Manzoni non accettò tutta la letteratura francese e si faceva scrupolo di liberarsi di alcune opere non consone alla sua nuova condizione di credente.

Per quanto riguarda la monaca di Monza è lampante l’analogia con La religieuse di Diderot. In entrambe le opere le novizie prendono i voti forzatamente, ma mentre Diderot incolpa il monastero per le sevizie della suora, il Manzoni fa ricadere la colpa su Gertrude. Entrambi usano “scomposta” riferito a bellezza, con un uso prettamente estetico in Diderot, con un carattere psicologico che traccia l’incoerenza dell’animo e l’incostanza del carattere in Manzoni. Alla fine le due opere sono completamente antitetiche, in comune solo la monacazione forzata, con una tragedia umana e morale in Manzoni che Diderot ignora del tutto. Nella creazione del personaggio di Egidio, amante della Monaca di Monza, hanno contribuito il personaggio di Lovelace della Clarissa di Richardson e il Dolmancè di De Sade. Mentre il Dolmancè spiega a Eugenie che non vi è alcuna azione che sia veramente criminale e nessuna che possa dirsi virtuosa, Egidio inculca a Gertrude che tutto ciò che lo aveva portato alla violenza e alla perfidia era un’invenzione dell’astuzia, un’arte per godere a spese altrui.

Padre Cristoforo, nello sfidare Don Rodrigo, ricorda l’abate Clerville che affronta il signor Franval in De Sade e ancora i rintocchi delle campane che scuotono Franval ricordano lo scampanare che colpì l’Innominato nella terribile notte della sua conversione.

Nella letteratura francese le monacazioni forzate, la corruzione del clero, la cupidigia dei preti rispondono a un’esigenza denigratoria e scandalistica, mentre per il Manzoni a un’intima esigenza di erudire la moltitudine, per avvicinarla al bello e all’utile. Il Manzoni riconosceva all’uomo i valori di libertà della ragione ma ne moderava l’azione con i precetti morali e le norme evangeliche. Pur partendo da un concetto illuministico d’indipendenza del singolo, respingeva la totale emancipazione. C’è nell’Innominato un processo di riscatto dalla prepotenza a differenza del personaggio Karl Moor nei Masnadieri di Schiller e del Corsaro di Byron, dove non c’è alcuna possibilità di conversione. Il Manzoni procede a un’opera di restauro sociale religioso concedendo la Provvidenza per cui la sventura è provvida, come dirà nel coro dell’Ermengarda, come prova voluta da Dio. Il romanzo non è una propaganda religiosa, come affermava Moravia, ma profondo sentimento religioso che aiuta l’autore a compatire l’uomo, come certezza di fede e volontà di redenzione cristiana.

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La terra fonte di cibo

 


L'agricoltura in Italia ha subito notevoli cambiamenti rispetto al passato. Una volta si basava su metodi tradizionali e su una gestione familiare. Negli ultimi decenni sono stati introdotti macchinari agricoli moderni e nuove tecnologie, incrementando la produttività e l'efficienza. L'agricoltura italiana si è integrata sempre di più nel mercato globale, con un aumento dell'interesse per quella biologica e sostenibile.

Nonostante i cambiamenti, l'agricoltura rimane un settore di grande importanza per l'economia italiana, ponendosi al terzo posto in Europa dopo la Francia e la Germania.

Parallelamente allo sviluppo dell’agricoltura, si sono assottigliati i terreni. Di questi, gran parte restano incolti, col pericolo di diventare discariche quando non lasciano il posto al cemento. Le nostre pianure risentono dei cambiamenti climatici con alluvioni e dissesti idrogeologici. Sfide che hanno costretto i contadini a costruire terrazzamenti, bonificare zone, rassodare e spianare. Anche la Pianura Padana, la più estesa d’Italia, va incontro ad allagamenti e bonifiche ricorrenti. Molti i terreni espropriati, da nord a sud, trasformati in abitazioni, strade e autostrade. Difatti, l’unico modo per assicurare la vita a un appezzamento di terreno è coltivarlo, altrimenti, prima o poi, sarà occupato dal cemento. Il futuro della Terra è dato dalla quantità di cibo che riusciremo a garantirci già nei prossimi anni.

I contadini vedono il loro lavoro ridotto a spiccioli, perdendo anche quella piccola speranza di salvare un’alimentazione naturale. Accanto ai finanziamenti ormai ristretti, dobbiamo ricordare gli scempi che avvengono nelle coltivazioni con l’uso massiccio di pesticidi e sostanze varie per accrescere la produzione o mantenere a lungo i prodotti, oltre ai semi modificati.

La concorrenza di mercato vede prodotti provenienti da vari paesi, con il rincaro dei prezzi e l’abbattimento dei profitti, altrimenti si assiste al macero di frutti e ortaggi. I consumatori mangiano banane perfette, dopo che queste ultime hanno sostenuto lunghi viaggi, o mele farinose, o arance che appena riposte nel cesto fanno la muffa, fragole che sanno di niente, limoni che spremuti non danno succo e pere che, appena sul tavolo, si mostrano marce. Un frutto non si riconosce più dal profumo. Se non fosse per la differenza di polpa, sarebbero tutti uguali tanto da ingurgitare qualsiasi cosa senza sapere se si tratta di mela o di pera o di altro. Quanti trattamenti ci vogliono prima di mangiare un frutto? Venti giorni per liberarsi del veleno ricevuto come quello riservato ai parassiti. E le erbacce? Ogni tre giorni bisogna passare e ripassare nei solchi per tirarle, ma la mano d’opera costa e ci si affida al diserbante che, una volta nel terreno, arriva anche alle piante. Nel passato sapevi che le arance erano di Sorrento o di Sicilia, l’olio di Sapri, parlando della Campania, ma oggi? Un’arancia può venire dal Portogallo o dal Marocco o da Creta, tutto tranne che dal tuo paese e non c’entra il nazionalismo, solo la freschezza del prodotto. Se arriva da paesi lontani, sarà pessima e senz’altro finirà nella spazzatura. Avete idea del cibo che finisce nell’umido? E di questo, gran parte sulla tavola non ci arriva poiché, prima di essere cucinato o mangiato, deperisce. La legge di mercato impone di acquistare i prodotti provenienti da altri paesi, perché se ti mangi le tue arance, non fai commerciare quelle del Congo e intanto le tue, quelle a quattro passi da casa, non sono più curate come una volta, tanto ci sono quelle del Portogallo, della Turchia, e dove prima c’erano le nostre arance di casa, oggi ci sono le strutture ricettive: si guadagna di più, ma intanto si mangia peggio. E se vado in Svizzera, mangio kiwi italiani al modico costo di un euro e cinquanta l’uno, circa venti centesimi a fettina, mentre in Italia ci sono quelli che arrivano da paesi lontani.

Questo è il mercato. E ancora, dei frutti esotici importati che passano più tempo nelle stive delle navi che sulle nostre tavole e costano più dei nostri frutti, ne mangiamo la metà, l’altra marcisce durante il viaggio o subito dopo. Ma c’è il rischio che arrivino anche in perfetta forma, segno di aver subito trattamenti prima dell’imbarco. Qualcuno crede che basti il piccolo orto di casa per stare tranquilli, finirà anche quello, inglobato dal grande business, ma poi ci toccheranno le pillole di cavoli o di carote magari fornite de grosse aziende farmaceutiche a caro prezzo per renderci le nostre vitamine quotidiane senza passare per alcun terreno. La preoccupazione di oggi non è l’atomica, come si pensava nel passato, il futuro è già qui e ci dice che sarà la fame, per mancanza di terre da coltivare mentre gli abitanti della Terra saranno appena dieci miliardi. I paesi del mondo stanno già oggi andando a caccia di terre da coltivare, lo fanno già i cinesi, che si sono spostati in Africa con la speranza di colonizzare nuove terre. Pescano nel mare del Senegal assicurandosi parte della costa atlantica così come altri paesi si stanno adoperando per trovare luoghi dove dirigersi. E si stanno facendo ricerche per quando sulla Terra mancherà del tutto la possibilità di sfamarci, studiando il cosiddetto piano B. 

Lester Russell Brown sostiene che la più grave minaccia agli equilibri geopolitici sta “nel mix esplosivo tra competizione per le scarse risorse idriche e agricole, alti prezzi del cibo, aumento degli affamati, effetti del cambiamento del clima e pressione demografica. Ogni sera si siedono a tavola a cena 216.000 persone in più rispetto al giorno prima, ed è una crescita destinata ad accelerare". Si pensa, da più parti, a colonizzare Marte, il pianeta che più si adatta a ospitare l’uomo, ma non è stato ancora sperimentato. Sembra fantascienza ma ci siamo già dentro, quando assistiamo all’abbattimento di alcuni prodotti solo per il gusto di non venderli, viste le condizioni di mercato, allo sperpero di quello che facciamo a tavola, agli schizzinosi davanti a un frutto che presenta una piccola parte marcia e lo buttiamo mentre altrove qualcuno cerca il cibo tra i rifiuti. Dovremmo avere più cura del terreno come fonte di cibo per la vita. E anche lo squilibrio tra paesi ricchi e poveri diventa uno schiaffo alla miseria mondiale. Se a questo aggiungiamo una politica marcia, peggio di una mela bacata senza possibilità di cavare dall’interno il verme, siamo oltre la fantascienza.

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Tra reale e virtuale

 


La generazione dei Baby Boomers si è abituata alla vita virtuale lentamente con un approccio diverso dalla Generazione Z. Pur usando i social i Boomers sono nostalgici e fanno il confronto con i tempi andati. La Generazione Z e Alpha non hanno queste remore. Sono nate con i bottoni in mano, col virtuale già nel loro DNA e non hanno difficoltà a vivere i social. Lo fanno con disinvoltura, scegliendo di volta in volta il canale più adatto per una determinata azione. Eppure è proprio la generazione dei Baby Boomers, i nati tra il 1946 e il 1964, che vive sui social molto più degli altri, leggendo quello che c’è di nuovo, postando, interagendo con commenti e pubblicando contenuti personali. Scruta ogni meandro del web, bazzica su ogni piattaforma, scopre ogni giorno nuovi territori da conquistare. Sono pionieri appassionati e costanti, perdendo spesso la cognizione tra reale e virtuale. Ricordo ancora i primi anni che ero su fb, quando un giorno una mia amica fece un post dove diceva di stare male. La chiamai preoccupata e lei candidamente mi disse che lo aveva scritto per “creare un contenuto”, ma non era vero. Come quella volta che d’estate postai una foto che mi ritraeva in vacanza e scrissi che in quel momento tornavo dal mare. Tornavo realmente dal mare ma non avevo la foto del momento per cui ne misi una dell’anno prima. Altra volta posto una foto di qualche mese prima e nei commenti mi scrivono che, sebbene la foto mi ritraesse da giovane, ero uguale a oggi. Mi chiesi da quali elementi i contatti deducessero di trattarsi di una foto vecchia se era solo di qualche mese prima. E come facessero a trovare elementi differenti dalla realtà se mai, quelli che commentavano, mi avevano visto da vicino. In quei casi mi sarei dovuta mettere a spiegare che la foto era stata scattata appena un mese prima, e non anni addietro, che ero così come mi riportava l’immagine, che non uso filtri, perché credo abbiano un effetto peggiorativo e non mi va di apparire diversa dalla realtà. A voler precisare è come giustificarsi ed evitai. Solo piccoli esempi per dire che tra la realtà e la virtualità ce ne passa. Molti sui social cercano l’effetto straordinario, qualcosa di diverso, come l’esagerazione, la goliardia, l’umorismo e vagano da una parte all’altra lasciando commenti di ogni genere, dicendo la propria per ogni piccola sciocchezza, partendo a  raffica come se non avessero mai avuto la possibilità in vita loro di farlo. E in questo continuo sproloquio no stop gli errori non si contano, non solo ortografici ma proprio di comprensione, incorrendo in ciò che non si vorrebbe. Non si paga alcuna tassa a stare zitti e non siamo delegati in alcun modo a dire la prima cazzata solo per fare colpo sui nostri amici. Si scrive se abbiamo da dire qualcosa di valido senza ledere nessuno. Cosa difficile poiché chi legge i post lo fa con lo stato d’animo di quel momento: per cui se si trova in uno stato di grazia, non ci leggerà niente di male, ma se l’umore è sotto i piedi, non si fa che peggiorare la situazione credendo sia un’antifona per lui. La gente si offende per niente e s’incavola anche per meno, travisa spesso gli scritti, ti prende in considerazione solo quando in quel momento ciò che dici rispecchia il loro animo o sei riuscita a dire quello che avrebbero voluto in quel momento. E poi ci sono quelli che come cecchini, sparano su tutti e per ogni contenuto. Se ci confrontassimo nella vita reale così come in rete, sarebbe un bel problema. Nella realtà non affrontiamo niente e nessuno, poiché dovremmo misurarci con l’altra persona in modo serio e non attraverso scritti e immagini. Quando scrivo un post mi chiedo a chi possa interessare un fatto mio, forse a nessuno, e desisto. Se quell’idea mi rincorre, ci ritorno su e ne comincio a scrivere. Strada facendo mi vengono in mente i miei contatti, chi potrebbe dire cosa, chi forse prova la stessa cosa e non sopporta di leggere ciò che pensa, chi leggendolo potrebbe pensare di avercela con lui. Certo sembra assurdo fare queste riflessioni ma credo chiunque l’abbia pensato. Mi partono mentre inizio a scrivere tanto che spesso cancello tutto mettendomi nei panni di chi legge. Il motto di oggi potrebbe essere: “Penso, dunque scrivo”. Scrivere anche solo un post richiede empatia, capire le circostanze, evitare di ferire qualcuno, anche se quel qualcuno ha ferito te. Chi scrive deve preoccuparsi di dire cose utili, interessanti. Molti parlano e scrivono a “schiovere”, vale a dire a vanvera, giusto per il gusto di colpire, di lanciare frecciatine, di fare apologie, monologhi senza fine. E non è che se sei giornalista, professore, politico sei abilitato a scrivere e dire di più rispetto agli altri per requisire i fatidici like che ti abilitano a diventare un leader. Con tanti like diventi influencer, e questo è l’unico sogno di molti, per cui si parte con i post a raffica sperando di acchiappare consensi anche con una semplice stupidaggine. Ed è per questo che bisogna fare attenzione a ciò che si dice, perché legge anche chi non metterà mai un like ai tuoi post, poiché gli sei antipatico, si contrappone a te ma tutto sommato pensa ciò che scrivi. Le dinamiche che si presentano sui social sono tante e il traffico è maggiore che nella realtà. Abbiamo trasferito il reale nel virtuale tanto che nella realtà non siamo più naturali, ricordiamo quello che l’altro ha scritto, che cosa ha postato, quali commenti ha fatto e se ci incontriamo faccia a faccia non sappiamo che dire. Restiamo degli sconosciuti. Una volta un sacerdote, passato ad altra vita, mi mandò a dire che voleva conoscermi perché leggeva i miei post ed era contento, ogni mattina, di trovarmi in bacheca mentre beveva il caffè. Al like preferisco chi mi legge e scrivo quando ciò che dico non sia un editto o un’arringa e nemmeno una filippica. Quelle le riservo al confronto reale e non virtuale. Anche per scontrarsi con una persona, come si fa ad affidarsi a una tastiera? Avete mai contrattato quella persona? Può darsi abbiate solo dei pregiudizi nei suoi confronti, forse se la conosceste, diventereste veri amici. Le tempeste non sono per il virtuale, qui sopra ci vogliono giornate leggere e ritrovi piacevoli. Il virtuale non deve diventare la brutta copia della realtà. Scrivere rispettando gli altri. Ma nel tempo i social si prediligono alla realtà poiché mascherano, amplificano le parole, riducono di molto ciò che si dice e soprattutto ci rende volubili: chiedere amicizie o cancellarle è diventata un’operazione quotidiana come quella di mangiare. E quando i bambini hanno in mano un giocattolo, prima o poi lo rompono. A volte il silenzio è terapeutico.

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